Finalmente è arrivato questo importantissimo giorno.
Prima di tutto ringrazio il dott. Garulli, il dott. Veneroni e tutto lo staff della Chirurgia Generale, i Servizi Risorse Umane e la Direzione Infermieristica e Tecnica.
Ed anche la Radiologia nella persona del dott. Cavagna e della d.ssa Roversi che hanno condiviso e portato avanti con noi questo progetto.
L’ambulatorio cd del mercoledì esisteva già come ambulatorio di libero accesso.
La Donazione da parte della nostra Associazione è finalizzata al finanziamento di un case manager, ossia un'infermiera che funga da punto di riferimento dell’ambulatorio per migliorare e rendere più efficace il servizio che si integra nel Percorso Diagnostico Terapeutico delle Patologie HPB, che gestisca i rapporti con i MMG ed quelli con il paziente inviato all’Ambulatorio dal MMG, che organizzi appuntamenti e che gestisca le varie attività trasversali, dalla tenuta dei dati della famigliarità, ai rapporti con il team di medici esperti che seguiranno il singolo caso.
Infatti l’ambulatorio mira ad essere condiviso tra più strutture che in maniera trasversale si occupano di Patologie del Fegato, Pancreas e Via Biliari.
Il tutto con l’obiettivo di ridurre il tempo tra un fondato sospetto e l’eventuale diagnosi.
Il percorso era già partito grazie alla collaborazione dell’AUSL che ha organizzato corsi specifici per i MMG per approfondire la tematica del tumore del pancreas e l’individuazione dei sintomi, che sono sì generici e aspecifici, ma che, se letti a sistema, possono rappresentare la base per un fondato sospetto.
Passare dal sospetto alla diagnosi in un lasso di tempo breve: significa possibilità di diagnosi tempestiva quando ancora non si può parlare di screening:
arrivare prima per arrivare meglio ed in maniera più efficace.
A questo punto ringrazio chi con me ha contribuito al progetto, tutto il Direttivo e tutti quelli che ci hanno sostenuto ed aiutato.
Ringrazio l’AUSL per aver accettato la donazione e con questa, fatto suo, il progetto.
La nostra è un'Associazione di Volontari e appunto anche io sono una Volontaria.
Lavoro al Comune di Rimini e so benissimo cosa significhi lavorare per e con un Ente Pubblico.
E per questo credo che, anche se il percorso per arrivare fino a qui non è stato semplice, non ci siamo scoraggiati perché abbiamo una forza che ci guida. Siamo stati Caregiver “donatore di cura” e tra noi ci sono e ci sono stati pazienti.
Mi riferisco in particolare a Luca e Irene, a cui è stato dedicato il progetto, che fino all’ultimo ci hanno creduto, entusiasti della vita e pronti a fare tutto quello che di buono e possibile si poteva fare.
E noi ce la mettiamo tutta perché pensiamo che le idee possono diventare sogni, i sogni si possono trasformare in obiettivi e gli obiettivi quando vengo realizzati danno vita alla vita.
Grazie a tutti.
Francesca Gabellini
LA GENOMICA colpisce ancora. Lo studio del genoma, infatti, sta aprendo le porte alla medicina di precisione anche alla lotta contro il tumore al pancreas, spesso diagnosticato tardi, tanto che a cinque anni dalla diagnosi appena il 9% dei pazienti è vivo. Contro questo tumore è disponibile la chemioterapia, ma non ci sono ancora farmaci a bersaglio molecolare e terapie personalizzate. Un passo avanti in questo campo è stato compiuto da un gruppo di ricerca coordinato dall'Università di Pittsburg, negli Stati Uniti, che ha studiato il genoma del tumore al pancreas di un vasto campione di pazienti provenienti da tutto il mondo. Gli autori hanno individuato alcune mutazioni genetiche potenzialmente associate al tumore e hanno identificato un gruppo di pazienti che probabilmente rispondono meglio alle terapie esistenti. I risultati sono pubblicati su Gastroenterology.
Veloce e silenzioso, in molti casi il tumore del pancreas viene scoperto quando è già avanzato, nello stadio metastatico, e per questo non può essere rimosso chirurgicamente: in media su 10 individui che ricevono la diagnosi soltanto 3 o 4 possono essere trattati con la chirurgia e circa il 75% delle persone con questa malattia non sopravvive a un anno dalla diagnosi. Questo ritardo nella scoperta del tumore è dovuto soprattutto alla sua aggressività e alla rapidità, nonché alla frequente assenza di sintomi evidenti. “Sono pochi i sintomi che possono far pensare a un sospetto di tumore al pancreas", sottolinea Gian Luca Grazi, direttore della Chirurgia Epatobiliopancreatica presso l'Istituto Nazionale Tumori Regina Elena (Ifo): "Fra questi, per una diagnosi precoce bisogna prestare attenzione a segnali quali la presenza di ittero, ovvero la colorazione gialla della pelle, che può essere dovuta all'ostruzione delle vie biliari causata dal tumore, e all'insorgenza improvvisa di un diabete”.
Ma anche una volta che la patologia è stata scoperta, individuare il trattamento più efficace per il singolo individuo non è semplice. Questo perché ogni forma tumorale è diversa e non tutti i pazienti rispondono allo stesso modo ai vari trattamenti chemioterapici disponibili. L'ideale sarebbe riuscire a conoscere qual è il profilo molecolare associato al tumore del paziente, per comprendere fin dall'inizio quale sia il trattamento più efficace. In questo senso, lo studio del genoma del tumore è una strada molto importante da percorrere. “Non solo per fare prima la diagnosi – spiega Grazi – ma anche per evitare interventi chirurgici inutili, per comprendere quali pazienti rispondono meglio alle terapie e per identificare quali trattamenti sono più efficaci per il singolo paziente: in questo modo, anticipando i tempi della terapia, potremmo arrivare a rendere operabili anche i tumori che inizialmente non lo sono”.
I ricercatori di Pittsburg hanno studiato quasi 4 mila campioni di tessuti di tumore al pancreas di pazienti provenienti da tutto il mondo. L'obiettivo era quello di cercare, sulla base di un insieme di geni già noti ed associati ad altri tipi di cancro, dei biomarcatori che, come delle bandiere biologiche, permettano di catalogare i tipi del tumore al pancreas e di poter trovare dei trattamenti efficaci e già esistenti contro queste diverse forme tumorali. Un po' come avviene già ora in alcuni tumori, come quello al seno, in cui è possibile personalizzare la terapia sulla base del sottotipo tumorale del paziente.
In base ai risultati, gli autori hanno osservato che nel 17% dei campioni analizzati erano presenti particolari mutazioni genetiche, potenzialmente associate al tumore al pancreas. Fra queste anche alterazioni nei geni della famiglia dei Brca, gli stessi coinvolti i altri tumori, in particolare al seno e alle ovaie. Tali mutazioni, spiegano gli autori, fanno ipotizzare che quando presenti il tumore sia maggiormente vulnerabile, ovvero possa essere più facilmente trattato con gli agenti chemioterapici esistenti.
La presenza di queste mutazioni, inoltre, potrebbe essere associata a un maggior rischio della malattia, e in futuro potrebbe consentire di ottenere una diagnosi precoce. “Riteniamo che sia il più vasto studio sul tumore pancreatico condotto con una profilazione genomica globale - conclude Siraj Ali, tra gli autori della ricerca - per identificare un ampio insieme di alterazioni genomiche e, in ultimo, bersagli terapeutici”.
Fonte: https://www.repubblica.it - Articolo di: Viola Rita
Pubblichiamo il volantino definitivo della serata del 7 Aprile 2019.
Ringraziamo ancora una volta gli Chef che hanno aderito con entusiasmo all'iniziativa, tutte le aziende ed i numerosi sponsor che ci aiutano a realizzare l'evento e tutti quelli che vorranno condividere con noi questo momento.
Grazie a tutti coloro che vorranno essere con noi!!! Vi aspettiamo!
Contro un nemico aggressivo come il cancro al pancreas ci vogliono armi non convenzionali. Così un nutrito gruppo di ricercatori statunitensi ha costretto uno dei tumori più letali in assoluto prima a nutrirsi di se stesso (un processo noto come autofagia) per poi impedirglielo, togliendogli la principale fonte di sostentamento. Con l’obiettivo, ovviamente, di affamarlo e distruggerlo. La doppia strategia farmacologica, descritta su Nature Medicine, sembra efficace, tanto che in soli due anni si è passati dal laboratorio al paziente. Gli esperti, però, sono cauti: i risultati sono promettenti ma per sconfiggere il cancro al pancreas non basta.
Benché non sia uno dei tumori più diffusi, l’incidenza del tumore al pancreas nel mondo sta crescendo. Un dato assai poco rassicurante, aggravato dal fatto che il tasso di sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi è inferiore al 9% e la maggior parte dei pazienti (75%) muore entro un anno dalla diagnosi del tumore. Una malattia infida, praticamente asintomatica fino a quando non è troppo tardi, e ormai il tumore è inoperabile o si è diffuso in altre parti dell’organismo. La diagnosi precoce, che darebbe una prognosi migliore, è invece rara e avviene per lo più in modo casuale, quando il tumore viene scoperto durante gli esami per altri disturbi. Le opzioni terapeutiche efficaci non sono molte e spesso i pazienti le esauriscono prima di spegnersi. Proprio come è successo al padre di Kirsten Bryant, che ha lavorato in prima persona la nuova ricerca, spinta dalla volontà di trovare delle alternative valide per i futuri pazienti.
Come descritto nell’articolo, le cellule del cancro al pancreas presentano mutazioni caratteristiche in un gene chiamato Kras, anomalie che causano la continua divisione cellulare e determinano la crescita incontrollata. Questa crescita in genere è sostenuta da diversi processi energetici, tra i quali l’autofagia. “L’autofagia è un processo attraverso il quale le cellule cancerose riciclano materiali”, spiega Channing Der dell’Università del Nord Carolina, tra gli autori dello studio. “Invece di eliminarli, li riutilizzano come fonte di sostanze nutritive”.
In un primo momento i ricercatori ritenevano che proprio le mutazioni di Kras predisponessero le cellule del cancro al pancreas a ricorrere con più frequenza all’autofagia, e che pertanto una strategia per colpire il tumore potesse essere quella di bloccare il processo attraverso uno specifico inibitore (l’idrossiclorochina). L’approccio, però, ha dato scarsi risultati: il tumore continuava a alimentarsi attraverso altre vie – in particolar modo la glicolisi, che permette di ricavare energia dalla scissione del glucosio. Il punto di vista andava cambiato.
“Quello che abbiamo poi scoperto è che se blocchiamo la fonte principale di sostentamento energetico – cioè la glicolisi – la cellula cancerosa inizia davvero a soffrire, e sarà costretta a ricorrere all’autofagia”, continua Der. “Trovare un modo per rendere i tumori del pancreas più dipendenti dall’autofagia, li avrebbe resi di conseguenza più sensibili all’inibitore”.
Ma come riuscirci? A sorpresa, proprio bloccando la via di segnalazione di Kras.
“Se si utilizza un farmaco per bloccare il percorso di Kras, si paralizza la capacità delle cellule tumorali di utilizzare altre fonti energetiche”, chiarisce Der. “La combinazione di questo farmaco con l’inibitore dell’autofagia, l’idrossiclorochina, è risultata una strategia molto efficace nell’affamare il tumore”.
I risultati sono molto promettenti, specialmente alla luce del fatto che per il cancro al pancreas non esistono molte strade terapeutiche da poter percorrere. La ricerca condotta dal team di Der, dunque, costituisce un buon punto di partenza verso lo sviluppo di nuovi approcci clinici.
Le evidenze di laboratorio sono state così significative che il team di Conan Kinsey e di Martin McMahon, ricercatori dello Huntsman Cancer Institute dell’Università dello Utah che hanno collaborato al progetto, ha non solo confermato le conclusioni dei colleghi ma è andato oltre, trasferendo la sperimentazione dalle cellule in vitro a un paziente, per uso compassionevole. “Siamo passati dalla capsula di Petri a un paziente in meno di due anni”, commenta McMahon, tra i firmatari di unarticolo sullo stesso numero di Nature Medicine, “Una tempistica che raramente si vede nella scienza medica”.
“Nel nostro articolo, mostriamo la risposta di un paziente affetto da cancro al pancreas che era già stato sottoposto a un intervento chirurgico e a diverse linee di chemioterapia prima di provare questa combinazione farmacologica”, racconta Kinsey, che era anche il medico del paziente. “Anche se alla fine è deceduto per la malattia, il paziente ha comunque avuto una risposta molto positiva a questi farmaci per diversi mesi”.
Visti i buoni risultati in vitro e i dati molto preliminari sul paziente, i ricercatori prevedono che una sperimentazione clinica verrà ampliata coinvolgendo più centri di ricerca e di cura, tra cui proprio il Lineberger Comprehensive Cancer Center dell’Università del Nord Carolina e dell’Anderson Cancer Center dell’Università del Texas. Scopo degli studi che prenderanno il via in futuro è confermare la risposta positiva alla nuova terapia farmacologica combinata in altri pazienti, e identificare quei malati che potrebbero trarre il maggior beneficio.
I tumori al pancreas, infatti, non sono tutti uguali e un altro ramo della ricerca nel settore si sta concentrando proprio sull’identificazione delle firme genetiche che permettano di predire se una determinata neoplasia sia suscettibile a questa o quell’altra terapia. Secondo un ampio studio sul genoma del tumore al pancreas condotto dall’Università di Pittsburg (e apparso di recente su Gastroenterology) nel 17% dei casi è già possibile identificare dei marcatori che consentano di indirizzare i pazienti verso la terapia più appropriata.
La comunità scientifica, dunque, concorda: un approccio “taglia unica” non può dare reali progressi.
Riferimenti: Nature Medicine 1; 2 –University of Pittsburg
Fonte: https://www.galileonet.it Articolo di: Mara Magistroni